23/07/2024

Il Giorno del ricordo è stato istituito al fine di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

La scelta del 10 febbraio da un lato suggerisce un nesso causale tra la pace imposta dalle potenze cui l’Italia aveva dichiarato guerra e gli eventi luttuosi che la festività si propone di commemorare e tramandare, dall’altro fa sì che le foibe e l’esodo siano ricordati esattamente due settimane dopo la Giornata della memoria della shoah. Il 10 febbraio, giorno in cui nel 1947 fu firmato il trattato di Parigi in cui l’Italia dovette regalare l’Istria e tutte le splendide isole nell’Adriatico orientale, alla Jugoslavia.

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Considerato che in genere gli eventi legati alle due ricorrenze si sviluppano a cavallo delle giornate stesse e la somiglianza delle due denominazioni, oggetto di frequenti lapsus e malintesi, ne deriva una certa confusione, come prova l’iniziativa di alcuni Comuni italiani di fare economia celebrando il Giorno della memoria e quello del ricordo in un unico evento posto a metà tra le due date.

Dal 2005, ogni 10 febbraio, raccontano una versione di quel che accadde a Trieste, in Istria e in tutta quanta la “Venezia Giulia” nella prima metà del ventesimo secolo. La legge che il 30 marzo 2004 ha istituito il “Giorno del ricordo”, alludendo alla “complessa vicenda del confine orientale”, ma non c’è alcuna complessità nei fatti che tale ricorrenza ha fissato e cristallizzato. Una vulgata italocentrica, a dispetto della multiculturalità di quelle regioni. Non è chiaro cosa si voglia ricordare: esclusivamente l’esodo degli italiani dall’Istria, le foibe di Basovizza, oppure tutti i tristi episodi ascrivibili alla seconda guerra mondiale, comprese tutte le foibe, i campi di concentramento e tante altre vicende che dovremmo conoscere, condividere, studiare per poi ricordare.

Sarebbe stato bello se almeno una delle alte cariche avesse partecipato, presso il monumento nazionale della Foiba di Basovizza. Anche quest’anno la cerimonia che ha visto accorrere a Trieste esponenti della politica nazionale come Matteo Salvini (Lega), Giorgia Meloni (Fdi) e Mariastella Gelmini (Forza Italia). Tra le autorità, con il sindaco Roberto Dipiazza, il presidente del comitato per i Martiri delle Foibe Paolo Sardos Albertini, la presidente della Regione Serracchiani, c’era solo il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova in rappresentanza del Governo.

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La visione strettissima, ma anche un po’ sgranata, si concentra sulla violenza: “foibe” e “esodo”, ovvero l’abbandono di Istria e Dalmazia, a cominciare dal 1945, da parte della maggioranza della popolazione italiana di quelle regioni. Nonostante le discussioni di politica internazionale, la storia, da sempre, definisce “Italia” tutte quelle zone che urlano “italiano” in tutte le chiese, i palazzi antichi, l’urbanistica, le tradizioni e la parlata.

Passate per la Repubblica di Venezia, erano per questo considerate terre della Venezia Giulia. Solo il terrore del comunismo titino fece cercare la salvezza nella fuga. L’abbandono delle case e terreni di proprietà, delle attività e anche di una minoranza degli abitanti che si definivano slavi e credevano nelle “opportunità” offerte dal regime jugoslavo. Oggi sappiamo quanto si sbagliarono. Vissero per quasi cinquant’anni senza possedere nemmeno se stessi, prima di farsi la guerra da soli per conoscere la libertà e chiedere l’ingresso in Europa.

Quando si parla di foibe, sul confine orientale, la storia sembra cominciare a Trieste nell’aprile 1945. Retrocedendo, al massimo si arriva in Istria all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943.
I crimini commessi dalle autorità italiane durante la guerra con stragi, deportazioni, internamenti in campi sparsi anche nella nostra penisola, è meglio dimenticarli. Questo per alimentare la credenza negli “italiani brava gente”.

Bravi i militari, i fascisti, la resistenza nei Balcani e lo stesso movimento partigiano italiano che ci liberò dal fascismo, per i quali la Jugoslavia rappresentò un modello da imitare, un incredibile esempio di efficacia militare, coerenza politica e appoggio popolare (ma meglio non ricordare cosa fecero, lasciando spazio alle motivazioni).

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Il silenzio pesa e condiziona tutte le ricostruzioni. Molti si stupirebbero nell’apprendere che alla resistenza jugoslava presero parte numerosi italiani: civili di quelle zone, ma anche disertori e sbandati del regio esercito. Nei territori oggi indicati come Friuli-Venezia Giulia, Repubblica di Slovenia e Repubblica di Croazia, l’opposizione armata al nazifascismo fu multietnica, irriducibile a qualsiasi agiografia nazionale.
Dovremmo ricordare alcune cose, che rafforzano l’immagine che i politici italiani vorrebbero lasciare alla storia, mentre non acquisiscono alcuna importanza eventi e località come Porzus (Udine) (battaglia tra militari italiani), Gonars (Udine) (campo di concentramento italiano dove si internavano gli italiani cacciati dalla Jugoslavia, uomini, donne, vecchi e bambini rastrellati dai paesi del Gorski Kotar, la regione montuosa a nord-est di Fiume – italiana), Monigo (Treviso) (dove rinchiudevano coloro che riuscivano a evitare Gonars), Vo’ Vecchio (Padova) (un altro dei 31 campi di concentramento istituiti dall’Italia in tutto il centro nord del bel Paese), Trieste (risiera di San Sabba, lager nazista utilizzato per il transito, la detenzione e l’eliminazione di prigionieri politici ed ebrei, definito “campo di sterminio”, era uno dei 38 allestiti in Italia).

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Tra gli aneddoti che riportarono d’attualità la vergogna italiana in occasione del trattato di Parigi ci fu il Movimento sociale italiano. Con il suo segretario, Gianfranco Fini, nel novembre del 1992, sebbene l’Italia avesse riconosciuto la Slovenia e la Croazia all’inizio dell’anno, s’imbarcò con Roberto Menia, allora esponente locale del partito, per lanciare nel golfo di Trieste 350 bottigliette con all’interno un suggestivo messaggio: “Istria, Fiume, Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Jugoslavia muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo nel 1975 oggi non valgono più… È anche il nostro giuramento: ‘Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!’”.
In Italia si è optato per l’istituzione di un’apposita giornata commemorativa, il Giorno del ricordo, il 10 febbraio. La giornata è stata introdotta dalla legge numero 92 del 30 marzo 2004, per iniziativa del secondo governo Berlusconi. Solo quattro anni prima, il precedente governo di centrosinistra aveva reso l’Italia uno dei primi paesi a commemorare le vittime della shoah il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata rossa, ben prima che le Nazioni Unite, con la risoluzione 60/7 del 2005, incoraggiasse tutti i paesi a fare lo stesso.

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Soprattutto nella prima proposta di legge firmata dal già menzionato Menia, l’intento di commemorare ufficialmente le foibe conteneva probabilmente elementi di vendetta politica, volontà di rivendicazione e rispetto nei confronti degli italiani che vivevano in quei territori, ma trovò la giusta collocazione temporale stante il governo di centro destra.
A Codroipo (UD) l’assessorato alla cultura del Comune ha celebrato la giornata del ricordo con un’interessante conferenza del prof. Stefano Pilotto (storia delle relazioni internazionali presso l’università degli studi di Trieste dal titolo: “A settant’anni dal trattato di Pace: foibe ed esodo nel ricordo perenne della nazione italiana e nella pietas cristiana”. Il sindaco Fabio Marchetti e l’assessore alla cultura Tiziana Cividini hanno ospitati alcuni esuli e figli di esuli che hanno regalato aneddoti personali all’appassionata relazione del professor Pilotto, giacché sembra impossibile ma, nonostante si tratti di storia, di fatti accaduti almeno settanta anni fa, ci sono tantissimi aspetti che ancor oggi sono nascosti, occultati, dimenticati.
Quante famiglie furono affogate e sparirono improvvisamente, quante trovarono l’uscio di casa segnato indicante l’origine italiana, non gradita. Tutti furono espropriati dei loro beni, delle case, delle attività, dei terreni e delle barche. Si disse che erano liberi di scegliere tra emigrare verso l’Italia o rimanere, ma la realtà per chi restava sarebbe stata disumana. Alcune famiglie sparivano nell’Adriatico. Veniva instillato l’odio e il terrore tra la gente.

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Chi ha frequentato la Jugoslavia sino a pochi anni fa, sa benissimo a cosa mi riferisco. Oggi basta fermarsi in un bar e trovare un adulto (non necessariamente anziano), per scoprire cosa volesse dire sottostare a Tito nell’epoca del comunismo. Nessuno parla l’italiano normalmente, ma tutti sanno esprimersi in un linguaggio molto simile al triestino, sulla costa slovena come in Croazia, il dialetto venetomorfo rappresenta il vero veicolo di comunicazione, ma ricordiamo che anche entro gli attuali confini, a quei tempi, la lingua italiana era paragonabile al latino, appannaggio di medici, notai e pochi altri.

Il mescolamento linguistico è da sempre piuttosto normale, nei vari ambiti della propria esistenza si usa una lingua o l’altra, tanto che a Fiume (nel 1924 fu annessa alla Venezia Giulia) si diceva che “el più stupido omo parla quattro lingue”.
Tornando all’evento di Codroipo, rimasi molto contento dell’iniziativa da parte dell’assessore Cividini, che finalmente sta portando iniziative in città che possiamo realmente considerare culturali, con grande spirito d’iniziativa e passione, sta regalando opportunità di conoscenza e approfondimento che, senza destare troppo stupore, ancora non sono raccolte dal grande pubblico di Codroipo che predilige il salame e il vino. Credo che il sindaco Marchetti abbia trovato la persona giusta per l’incarico.
Sebbene molto apprezzabile l’opportunità con il prof. Pilotto, rimane ancora curiosità e delusione, con la speranza, prima di morire, d’ascoltare qualche verità in più sulle azioni degli italiani durante le guerre. Scollandoci da dosso quell’abito bello e pulito di “brava gente” e soprattutto considerando che generalizzare è sempre sbagliato. Seppur italiano, io non mi considero responsabile degli eccidi o di qualsiasi genocidio che non ho commesso di persona, alla pari di quando vedo un tedesco, uno slavo o un arabo che non posso accusare solo per la sua nazionalità.
La scuola di oggi, non può continuare a nascondere la storia contemporanea. All’indomani della seconda guerra mondiale, i campi allestiti tra il 1940 e il 1947 dal Regno d’Italia e dalla Repubblica di Salò, furono pressoché rimossi dalla memoria collettiva. Anche se questi argomenti sono poco congeniali alla narrazione del passato che andò affermandosi dopo la fine della guerra, rimangono sostanzialmente avulsi dal sentire comune degli italiani e dall’interesse della ricerca accademica.
Suggerisco di rinominare questi luoghi, per agevolarne lo studio, in “luoghi dell’oblio”. Se la storia è scritta dai vincitori, i perdenti tacciono. Le guerre sono sempre sbagliate, chiunque vi partecipi e con qualsiasi motivazione, uccide altri esseri umani.
L’Italia non è solo la mafia, i politici corrotti e i campi di concentramento, ma nemmeno possiamo continuare a esultare per il Papa, l’impero romano e la brava gente. Smettiamo di considerarci sempre superiori, vincenti e migliori degli altri. I fatti della storia non parlano di noi, ma solo di compatrioti, che se hanno sbagliato è corretto si sappia, senza per questo sentirci accusati o peggio colpevoli.

Marco Mascioli

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